3a Tornata Nazionale dei Maestri Segreti

Intervento del Grande Oratore – Gran Ministro di Stato

IL SEGNO DI ARPOCRATE

“In mezzo al silenzio mi fu detta una parola segreta. Dov’è il silenzio e dov’è il luogo in cui questa parola è pronunciata? Come ho già detto: nella parte più pura che l’anima può offrire, nella sua parte più nobile, NEL SUO FONDO”, cioè nella sua essenza. Là è il profondo silenzio, poiché là non è mai penetrata né creatura, né immagine alcuna; là non arriva all’anima né azione né conoscenza; là essa non sa più nulla di immagine alcuna, né di se stessa, né di altra creatura.”
“il Natale dell’anima” di Maestro Eckhart

La Libera Muratoria, in quanto emanazione della Tradizione, fonda i suoi insegnamenti, o meglio, il divenire dei fratelli, su Simboli e Riti, che a loro volta devono essere correttamente vissuti per poter
esercitare la loro azione trasmutatrice.
In questa prospettiva e per meglio descrivere un possibile modello d’azione, può essere di un certo interesse esaminare il simbolismo connesso ai cosiddetti “Segni d’Ordine”.
Cominciamo a porre l’attenzione sul fatto che il “Segno” è compiuto in assoluto silenzio, quindi ha valore di comunicazione simbolica ed attesta la qualificazione di chi lo compie; in quest’ambito assume valore di “marchio” ed è agevolmente assimilabile al cosiddetto “marchio dei cottimisti” tipico della Massoneria Operativa, che serviva, tra l’altro, a garantire al committente la validità del prodotto finito.
In altri termini il Massone che compie il Segno d’Ordine attesta di essere, simbolicamente, “Giusto e Perfetto”.
Quest’ultima asserzione può agevolmente essere intesa considerando che il gesto è detto: “D’Ordine”, ossia è rapportabile ad una condizione interiore ben precisa.
Il Segno, in definitiva, assume valore di Mudra, in altre parole movimento rituale e diviene, per chi lo attua consapevolmente, un mezzo per focalizzare l’attenzione della mente sul nuovo stato di consapevolezza che si appresta a realizzare.
Quest’ultimo per sua natura non è facilmente definibile, ma possiamo aiutarci facendo nuovamente riferimento alla Massoneria Operativa. In quest’ottica, si può ipotizzare che la Pietra non solo è stata lavorata, ma possiede le prerogative necessarie per poter essere inserita nel contesto dell’Opera.
In conclusione, possiamo affermare che il Gesto d’Ordine appartiene alla categoria dei Simboli, e che come tale, manifesta corrispondenza tra la manifestazione formale e quell’informale che ne costituisce il principio ed il fondamento.
Il Segno d’Ordine dei Maestri Segreti si compie ponendo l’indice ed il medio della mano destra appoggiati verticalmente sulle labbra, questo è il segno del silenzio o di Arpocrate.
Questi era Horus fanciullo, figlio di Osiride ed Iside. Cominciamo con il dire che Horus è la forma latina del nome egizio generalmente reso con Heru, divinità del cielo, d’altronde Horus è rappresentato frequentemente sotto forma di falco e come tale detto anche “il lontano”, i suoi occhi simboleggiano il sole e la luna, quest’ultima è la sostituzione magica dell’altro occhio solare che Horus, vendicatore del padre, perse in combattimento contro Seth.
Di Horus esistono numerose forme sincretiche, una di queste porta il nome egizio Horpa Khred, a sua volta ellenizzato appunto in Arpocrate.

A partire dal cosiddetto Terzo periodo intermedio egiziano, il suo culto cominciò a diffondersi, generalmente raffigurato in braccio ad Iside, mentre porta un dito alle labbra, atteggiamento che dal punto di vista essoterico altro non è se non la richiesta di essere allattato, mentre l’interpretazione più sensibile ai canoni iniziatici propende ad indicare il silenzio.
Con ogni probabilità questa non è una semplice congettura, infatti, come è avvenuto per altre divinità, vedi il caso di Mitra, Arpocrate entrò a far parte della religiosità greca e romana, dove giunse a rappresentare il dio del silenzio.
A questo proposito è importante rimarcare che non si tratta semplicemente dell’assimilazione di una divinità straniera in una sorta di sincretismo ellenico, ma della scoperta, con conseguente valorizzazione, di un elemento mistico.
Generalmente, il termine “mistico” è accostato a quello di “religioso”, ma se noi proviamo ad analizzarlo troviamo che è etimologicamente connesso al latino “mysticus”, a sua volta derivato dal greco “mystikos”, con il significato di “misterioso”, termine, a sua volta, legato a “myein”, ossia tacere, fare silenzio, chiudere, espressione cui in definitiva sono connessi i “misteri”, intendendo con questo termine quei culti, Orfici, Eleusini e Mitraici, solo per ricordare i principali, la cui finalità consisteva in un rapporto del tutto particolare, in quanto assolutamente legato all’esperienza personale, con la divinità; tale evento era di natura tale da perdurare anche dopo la morte terrena dell’iniziato.
L’importanza dei Misteri fu enorme ed è probabile che, ancora oggi, la loro portata non sia del tutto compresa. Questa affermazione non deve stupire; infatti la quasi totalità delle nostre conoscenze in merito proviene da elementi culturali nei quali, con ogni probabilità, si riflette l’antica sapienza, ma quanto concerne gli aspetti esoterici è andato perduto pressoché integralmente.
Già Platone, e prima di lui i presocratici, avevano volgarizzato, sia pur rimanendo nei confini del dovuto riserbo, un certo insegnamento; successivamente i neoplatonici, ed in particolare Plotino ( 204-270 d.C.) ed i filosofi gnostici ripresero e rielaborarono le antiche dottrine. A questo proposito è probabilmente sufficiente accennare agli oracoli caldaici di Giuliano il Teurgo (fine del II° d.C.) ed all’opera di Zosimo di Panopoli (III°-IV°d.C.).
Anche in letteratura sono numerose le opere nelle quali appare manifestamente l’impronta misterica. Tra queste mi limito a ricordare gli inni orfici (la cui stesura si può collocare fra il IV° secolo a. C. e il II° secolo d.C.), l’inno omerico a Demetra (VII°-VI° secolo a.C) e gli scritti di Apuleio da Madaura (125-170 d.C.).
La penuria di materiale esoterico originale non deve stupire, infatti i misteri eleusini erano rigidamente protetti dalla divulgazione, addirittura era prevista la pena di morte sia per gli iniziati che rivelavano, anche solo in parte, la ritualità, sia per i profani che avessero osato spiare i riti.
Quindi, la prima interpretazione che possiamo dare al silenzio è quella di assoluta riservatezza.
Ancora, in epoca più recente, Vincenzo Cartari scriveva:

“Arpocrate, dio del silenzio, veniva rappresentato con la mano destra posata in prossimità del cuore, coperto (con un mantello) da (in) pelle, pieno d’occhi ed orecchie, a significare che molte cose possono esser viste ed udite, ma ben poco bisogna dire”.
(Le vere e nove immagini de gli dei degli antichi, 1615)

D’altronde i misteri non possono essere correttamente intesi se si esula dalla loro sacralità iniziatica; in tale prospettiva, è bene ricordare che questo tipo d’esperienza è solo in piccola parte razionale e, pertanto, minimamente spiegabile. A questo proposito, ricordo che Plutarco affermava che:

“L’anima al momento della morte prova la stessa impressione di coloro che si avvicinano ai grandi misteri”.

Queste considerazioni collocano il silenzio, relativo ai misteri, in una dimensione in cui coesistono l’aporreton, ossia ciò che non deve essere comunicato perché attinente al piano della riservatezza, e l’arreton, in altre parole, ciò che non può essere comunicato, in quanto indissolubilmente connesso ad un’esperienza interiore la cui natura sfugge alla comprensione mentale.
A questo punto è probabilmente opportuno chiederci se il segno di Arpocrate non celi altri significati e, a questo proposito, ricordo la spiga di grano mietuta in silenzio dallo Ierofante durante l’iniziazione eleusina, azione che, con ogni evidenza, sta ad indicare che un certo lavoro va compiuto in silenzio, ma che questo non va inteso in senso esteriore, bensì interiore, concetto che riprenderemo più avanti.

“Perciò questo inno non può essere insegnato, bensì viene tenuto nascosto nel silenzio.”
Ermete Trismegisto – Discorso segreto sulla montagna.

In conclusione la parola mistero, che abbiamo realizzato essere strettamente connessa al silenzio, può essere utilizzata con tre differenti significati; infatti comunemente è utilizzata per indicare un fatto inspiegabile o segreto, ma in ogni modo razionale; nella teologia cristiana assume valore essoterico ed è utilizzato per indicare quel tipo di verità rivelate che l’uomo può conoscere in forma ma non in essenza e che deve accettare per fede; infine, dal punto di vista iniziatico, si indica quel particolare tipo di conoscenza intuitiva che nasce nel silenzio interiore.
I misteri eleusini furono messi al bando dall’imperatore Teodosio nel 381 ed il tempio fu distrutto dai visigoti di Alarico nel 395; è difficile dire se tali eventi cancellarono completamente i culti misterici da un’Europa ormai cristianizzata. Con ogni probabilità qualche cosa rimase, anche se in forma assolutamente clandestina.
Sostanzialmente dobbiamo giungere ai Fedeli d’Amore, a Giorgio Gemisto Pletone (1355-1452), che introdusse a Firenze gli insegnamenti neoplatonici e Marsilio Ficino (1433-1499), che tradusse il Corpus Hermeticum nel 1463, per assistere ad un tentativo di recupero dell’antica sapienza, magari ammantandola di cristianesimo in modo da farla apparire innocua.
E’ un epoca difficile, gli Iniziati sono costretti a coniugare divulgazione e segreto. Questo può avvenire con una sorta di linguaggio simbolico e segreto; in merito Dante afferma:

“O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de li versi strani”
Inferno, Canto nono, 61-64

Oppure ci si affida al linguaggio dell’arte, qui il discorso sarebbe troppo lungo per essere esaurientemente trattato in una Tavola, pertanto mi limito a brevi cenni per rimarcare, ancora una volta, come il silenzio sia sempre considerato una componente essenziale nello sviluppo dell’Iniziato.
Ad esempio, ricordo un’opera del pittore italiano Giovanni Luteri (1486?-1543), più comunemente conosciuto con lo pseudonimo di Dosso Dossi:  un suo olio su tela (1523-1524) intitolato: “Giove pittore di farfalle”; il quadro rappresenta un inconsueto Zeus con i fulmini deposti ai suoi piedi che suggeriscono che egli non è più un dio, ma solo un uomo, o se preferite, rappresentano la divinità ormai ad un passo dall’iniziato. La veste rossa suggerisce la dignità sacerdotale dell’artista che dipinge farfalle, un tipico simbolo di metamorfosi come ricorda Dante nel Purgatorio (Canto X, 124-126)

Non v’accorgete voi che noi siam verminati a formar l’angelica farfalla,che vola a la giustizia senza schermi?

Dietro la tela, un angolo nero è suggestivo della Nigredo, da cui sorge un arcobaleno interamente d’oro, classica allusione alla riuscita della Grande Opera. Alle spalle di Zeus, Mercurio fa il segno del silenzio rivolto ad una figura femminile, che molti interpretano come la Virtù, ma che a noi sembra più corretto interpretare come la Terrestrità che irrompe nella scena minacciando di rompere il silenzio entro il quale Giove opera.
Ricordiamo altresì che l’arcobaleno è il mitico ponte che collega il Cielo con la Terra, simbolismo che oltre a consentirci di vedere il divino pittore quale “uomo di mezzo”, cioè colui in cui l’atto è uguale alla potenza, ci riporta anche a Mercurio quale messaggero degli dei, suggerendo come il silenzio possa configurarsi quale elemento essenziale nell’opera trasmutatoria.

Può stupire vedere Mercurio, notoriamente dio dell’eloquenza, fare il segno del silenzio, ma questo è un elemento simbolico tutt’altro che isolato; a questo fine, consentitemi, carissimi Fratelli, di sottoporre alla vostra attenzione l’emblema dell’umanista Achille Bocchi, (Bologna, 1488 – Bologna, 6 novembre 1562) raffigurante Hermes che porta un candeliere a sette braccia mentre fa il gesto d’Arpocrate.

Di sfuggita, ricordo che il Bocchi fu il fondatore dell’Accademia Hermathena, il cui nome sta ad indicare la fusione della conoscenza razionale con quella ermetica, che come abbiamo già visto, è intuitiva.
Giunti a questo punto del discorso, non possiamo esimerci da una breve ricapitolazione; abbiamo esaminato due aspetti del silenzio, il primo è connesso all’obbligo morale di non rivelare ed il secondo a quello dell’impossibilità della comunicazione. Esiste, tuttavia, una terza interpretazione del silenzio, che consiste nel considerarlo quale assenza di suono.
Cominciamo con il notare che il silenzio appartiene senz’altro al mondo dei suoni, e come tale infatti è considerato un elemento essenziale nella musica, ambito nel quale il silenzio può essere considerato un non suono; inoltre constatiamo che il silenzio ed il suono si escludono vicendevolmente, palesando, in tal modo, di essere elementi costitutivi di uno stesso binario.
Quest’ultima considerazione ci consente di accostare il Silenzio all’Uno, perennemente uguale a se stesso ( per il silenzio si può parlare solo di durata, che è un elemento quantitativo e non qualitativo) ed il Suono al Molteplice; ognuno di loro per manifestarsi ha chiaramente necessità dell’altro, anche se è opportuno ricordare che il suono nasce e muore nel Silenzio.
Quindi, la nostra terza decifrazione del Silenzio ci conduce ad interpretare quest’ultimo come una sorta di matrice all’interno della quale qualche cosa si può manifestare.
A questo proposito desidero ricordare le parole di un musicista contemporaneo, Arvo Part, che afferma:
Il silenzio è sempre più perfetto della musica. Bisogna soltanto imparare ad ascoltarlo. Non arriviamo neanche ad immaginare quante cose ci sono nell’aria. Nessuno, normalmente, le vede. Le persone non ascoltano ciò che si trova nel silenzio che ci circonda.
(da Enciclopedia della musica, Einaudi, Torino 2001, vol. I).

Quest’affermazione ci consente di giungere alla quarta, ed ultima, interpretazione del concetto di Silenzio, ossia  il Silenzio Interiore, ovvero quella particolare condizione in cui si arresta totalmente il nostro pensiero.
Tale condizione riveste una importanza  notevole e merita una profonda riflessione.
Quello che appare non facilmente comprensibile è a cosa conduce tale esperienza e, specialmente, perché coloro che l’hanno realizzata sono così restii a parlarne?
Nel tentativo di fornire alcune possibili risposte, che peraltro hanno valore puramente personale, vi invito ad una banalissima riflessione.
Se io mangio una caramella alla menta cosa avviene? L’aroma, o se preferite, l’essenza della menta, è percepita da un senso grossolano e fisico, ossia il gusto; ma il processo, chiaramente, non si arresta lì, in realtà in qualche regione della mia mente scatta il processo di riconoscimento, in altri termini so che il gusto è quello della menta perché il suo sapore già mi era noto e quindi posso identificarlo.
Se non avessi mai assaggiato quell’aroma, la mia mente, dopo avere eseguito una sorta di “scansione” della memoria, nel tentativo di aiutarmi mi avrebbe fornito elementi analitici (è dolce) e di somiglianza (probabilmente è d’origine vegetale).
Si può inoltre verificare un terzo caso, ossia io conosco il gusto della menta, ma mentre mastico la caramella sono talmente assorto da quello che sta accadendo attorno a me, che non ho consapevolezza del gusto.
Processi simili avvengono nello stato di coscienza che si manifesta quando si realizza il silenzio interiore.
Ovviamente possiamo sbagliare, anzi questa è l’eventualità più probabile; in ogni modo la nostra idea è questa: personalmente non crediamo alla cosiddetta “Creatio ex nihilo”, preferiamo ipotizzare che determinati eventi esistano in potenza o in atto, e in questo ci rifacciamo un poco al simbolo orientale del fiore di loto che, secondo l’ora del giorno, ha i petali chiusi o aperti.
Questa premessa nel nostro pensiero sta ad indicare che, ordinariamente, di fronte a certi accadimenti noi siamo nella condizione di chi pur masticando la mentina, essendo assorto in altro, non percepisce nulla, o quasi.
Quindi, non basta eliminare gli stimoli esterni, o, se preferite, sensoriali (d’altronde, per questo, è sufficiente il sonno profondo, o un’anestesia) ma è indispensabile un atto di cosciente volontà finalizzato al percepimento.
Consideriamo una possibile obiezione:

“A cosa devo stare attento? Non ho idea di cosa cerco! ”

Nel tentativo di chiarire il nostro pensiero, diciamo che è un po’ come il risveglio da un sonno profondo nel quale lì per lì non si ha la coscienza di chi si è e di cosa si deve fare,  poi, adagio adagio, il livello di coscienza aumenta…
A questo punto, ritengo che si possa abbandonare la nostra allegorica mentina ed esaminiamo a quali conclusioni ci ha condotto.
Intanto, determinate esperienze, condotte a livello fisico-animico, hanno delle ripercussioni su piani sottili delle quali ordinariamente si è incoscienti.
Viceversa, chi persegue l’Arte sposta gradualmente la propria coscienza dai piani più grossolani a quelli soprasensibili; questo non vuol significare che le porte del Silenzio Interiore si schiudano sulla Gnosi, questo potrà essere possibile solamente molto più avanti; inizialmente ci si troverà nella condizione di chi non conosce l’aroma della menta e che, conseguentemente, tenta un’impossibile traduzione di ciò che percepisce in modo confuso ed approssimato.
In altri termini, l’evento è vissuto nella “forma intelligibile” che meglio si rapporta al proprio vissuto. Frequentemente, ma non solo, questo avviene sotto forma di simbolo; ovvero viene vissuta in maniera apparentemente sensoriale (specialmente: vista, udito, odore) un’esperienza che al momento non si è in grado di realizzare pienamente.
In definitiva, anche se è bene sottolineare che questa è la nostra personale interpretazione, il Simbolo appare nella zona d’interazione tra la coscienza sensibile in atto e quella soprasensibile che è ancora in potenza, anche se inizia a manifestarsi.
Proveremo a spiegarci meglio, è probabile che un Essere, particolarmente evoluto in senso spirituale, sia in grado di contemplare direttamente il Mondo delle Cause, ma, come abbiamo in precedenza detto, la quasi totalità degli uomini, non trovandosi in tali condizioni, può penetrare solo fino ad un certo punto in tale regione.
Il limite raggiunto costituisce chiaramente una frontiera che è estremamente soggettiva e che è evidenziata appunto dal Simbolo.
E’ importante rilevare che non ci troviamo semplicemente di fronte ad una statica linea di demarcazione, ma a qualche cosa di molto dinamico, con una sua peculiare energia, di cui si avvale per compiere le proprie funzioni.
Lo svolgimento del processo relativo non è facilmente comprensibile; si può ipotizzare che il nostro tentativo d’ascesi provochi, quale reazione, l’invio di un “messaggio”, una sorta di riverbero dovuto a un irraggiamento dall’alto  attraverso una nube. La percezione di tale evento è, con ogni probabilità, mediata dalla nostra coscienza corporea, dalla mente, se preferite, che mediante un processo facilmente intuibile lo traduce, per così dire, nel nostro linguaggio sensibile. Per questo il Simbolo si può manifestare come un’immagine, come un suono, oppure come un odore, e, ma molto più raramente, come un gusto od una sensazione tattile.
In breve, un quid appartenente al non sensibile è vissuto in maniera apparentemente sensoriale, con tutti i limiti che questo comporta.
Chiaramente la tipologia della manifestazione simbolica è in funzione di diversi parametri: intanto la natura del soggetto, poi la “regione” in cui è penetrato, il tipo di “lavoro” che si è proposto, ed altri ancora.
Indipendentemente da ciò, appare evidente che il Simbolo possiede altre funzioni, per esempio, si comporta come un “Marcatore di Passaggio”.
Una porta chiusa costituisce, indubbiamente, un ostacolo, ma indica contemporaneamente l’esistenza di qualche cosa d’altro che si trova al di là.
Tale Porta reca una scritta che ci rende edotti sulla maniera di aprirla e oltrepassarla, ma è vergata nella Lingua degli Dei, che, pur essendo molto semplice, è poco conosciuta, anche perché non si rivolge alla nostra razionalità ma all’intuitività.
Lo studio del Simbolo è lungo e difficile, poiché la sua comprensione è indissolubilmente legata alla nostra trasformazione, e, poiché questa non può che essere graduale, parimenti andremo incontro ad una serie di decifrazioni successive, che, chiaramente non potranno mai essere in contraddizione l’una con l’altra, ma armoniosamente propedeutiche.
E dopo…?
Qui, purtroppo, non possiamo dire molto; sostanzialmente, il problema è questo: il Silenzio Interiore, il Vuoto Mentale, il Grande Nulla sono, per noi uomini ipertecnologici del Kali Yuga, sinonimo di niente, mentre per altre culture indicano il Tutto.
Il concetto di vacuità è indubbiamente difficile, sia da spiegare sia da comprendere. Infatti, è necessario un grosso sforzo mentale volto a superare un radicato modo di relazionarsi, sia al sé, sia all’apparentemente diverso da sé, assolutamente duale e legato al sensibile.
In tale prospettiva, potrebbe essere utile rapportarci al punto di vista della Tradizione, la quale afferma che tutto ciò che noi percepiamo come manifestato proviene dall’immanifestato.
Conseguentemente, riteniamo corretto affermare che l’aspetto sensibile di un oggetto, in definitiva, costituisce unicamente il riverbero dell’essenza di quest’ultimo sul piano della manifestazione; tale “riflesso sensibile” da un lato possiede valore simbolico in quanto rimanda alla natura dell’oggetto, e dall’altro appartenendo al mondo del cambiamento e della trasformazione, non è che apparenza, che scompare di fronte all’Assoluto, in quanto non metafisicamente esistente.
La conclusione è a questo punto evidente: ogni forma è  vacuità, e viceversa, noi ci illudiamo di “vedere”, ma la nostra, in realtà, è ”cecità spirituale”.
Inoltre, ciò che percepiamo con i sensi ci appare multiplo e distinto, in ulteriore contrapposizione alla Tradizione che ci insegna l’unicità del tutto (en to pan), per contemplare la quale è necessario spogliare la nostra mente di tutte le nostre concezioni sull’oggetto che stiamo studiando. A questo proposito, voglio ricordare una bellissima frase di Shakespeare che bene rende l’idea:

Che cos’è Montecchi? Non è la mano, non è il piede, non è il braccio, non è il volto nè qualsiasi altra parte d’un corpo umano. Prendi un altro nome. Cosa v’è in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa non perderebbe il suo profumo se avesse un altro nome”.

Può altresì essere utile tenere presente che ciò che percepiamo non è apparso dal nulla, bensì rappresenta l’attualità di un qualche cosa che viene da molto lontano. Ricordo che la nostra scienza non riesce a spingersi oltre “un attimo dopo” il Big Bang e la religione oltre a quel misterioso principio che vide la genesi del cielo e della terra; cosmogonie solo apparentemente differenti, e che, in ogni caso, fanno supporre l’esistenza di una materia prima, assolutamente indifferenziata, da cui ogni cosa, fisica o mentale, è tratta e alla quale, dopo un tempo più o meno lungo, ritorna; simbolicamente, ad esempio, possiamo interpretarla come l’argilla rossa con la quale il GADU plasmò l’Adam Kadmon.
In definitiva, l’esperienza del Silenzio conduce l’iniziato alla consapevolezza dell’Uno (per utilizzare una terminologia massonica: alla Luce) che, in ogni modo, non è un concetto traducibile a parole, poiché con il manifestato (e la parola umana è tale) non si può rendere intelligibile il non manifestato. Anche perché, è bene rimarcarlo, vivere quest’esperienza significa esistere in un particolare stato di coscienza, molto differente rispetto a quello ordinario, nel quale la nostra consapevolezza si comporta come uno specchio, ossia riflette impassibile e silenziosa, priva di dicotomia tra soggetto contemplante ed oggetto contemplato. Quando usciamo da tale condizione, chiaramente conserviamo in noi la conoscenza di quel vissuto, è vero, ma vogliamo precisare che questa particolare Gnosi non è traducibile in pensiero e meno che mai in parole neppure per chi ha vissuto tale stato; infatti, solo riportandosi in quella condizione potrà riviverlo.
Qui riusciamo a comprendere il vero e più intimo significato dei termini “Esoterismo” e “Segreto”, in altre parole: il primo rapportabile ad un’esperienza individuale interiore, ed il secondo ad un vissuto non trasmissibile verbalmente.

27 ottobre 2012

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