Messaggio del SGC Leo Taroni Equinozio di Primavera 2016

La nostra pace

Introdurre il tema della Pace significa affrontare l’immediato contraltare della guerra, così come nei nostri Templi il percorso iniziatico si alterna fra i riquadri bianchi e neri del pavimento a scacchi.

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Occidente smarrito e attonito, come al risveglio da un incubo, iniziò a interrogarsi su ciò che era avvenuto, su come e perché era stato possibile il realizzarsi di una seconda catastrofe ancora più profonda e inconcepibile di quella della Prima Guerra,  finita meno di trenta anni prima.

Che cosa aveva indotto Nazioni europee di antica e grande civiltà, raffinatezza culturale, artistica, filosofica, a concepire un disegno di sterminio senza precedenti nella storia dell’umanità. Che cosa aveva indotto popoli interi a subire l’influenza di un gruppo di criminali per divenire artefici del male assoluto.

Com’è stato possibile che persone semplici, piccoli borghesi con un vissuto in tutto identico al nostro e a quello delle loro vittime, si siano trasformate in efferati carnefici.

Hannah Arendt, seguendo il processo a Eichmann, ebbe modo di riflettere sul male che aveva contrassegnato l’atteggiamento di molti che si erano spontaneamente tramutati in carnefici dello sterminio degli ebrei e dei diversi in genere. Comprese che ciò poteva scaturire proprio all’interno della banalità del vivere; concludendo che nessuna punizione è un deterrente sufficiente per evitare che si compiano crimini”.

Ciò significa che nessun tribunale internazionale o processo di riconciliazione, per quanto efficaci, possono cancellare un male che, come un virus letale, sembra destinato a ripresentarsi per il solo fatto di essersi manifestato.

Il problema del male, nella storia, è costantemente rappresentato come un enigma insolubile, collocato nella sfera della morale, delle religioni, del diritto e dell’etica, trascurando la ricerca delle sue vere radici culturali e ideologiche, relegandolo nella sfera dell’indicibile.

Per moltissimi anni il blocco politico occidentale e quello orientale vissero in uno stato di reciproca “guerra fredda” la quale, può apparire quasi un controsenso, determinò un lungo periodo di equilibrio e di pace.

Nonostante gli insanabili dissensi ideologici, economici e sociali, la pace fu il frutto del terrore per un conflitto atomico: la paura della completa distruzione di entrambi i contendenti fu il supporto della pace.

Potremmo definirla un’instabilità pacifica che, tuttavia, non assumeva gli intrinseci significati e valori propri della parola “pace” che, invece, presuppone una condizione di normalità di rapporti fra stati ed etnie, che consente di vivere in armonia con gli altri.

Crollato il Muro, non soltanto quello ideologico, un grande interprete della politica estera statunitense – Henry Kissinger – affermò che: “L’America difficilmente avrebbe potuto trovare un altro nemico così affidabile” perché, la reciproca paura aveva consentito di godere di un lunghissimo periodo di prosperità economica e di pace mondiale.

Sostanzialmente, come insegna la scienza politica, il duopolio USA-URSS ha rappresentato quella situazione in cui gli Stati “ingaggiano un’incessante guerra non guerreggiata fra loro e con tutti gli altri, al fine di mantenere basso il livello di anarchia e di conflitto, e generando quella che quasi tutti chiamano pace che è solo un nome”.

Sarebbe molto consolante pensare che “realpolitik” e raffinate strategie politico-militari possano determinare uno scenario di rapporti fra guerra e pace, nel quale verità e giustizia divengano il fondo stabilizzante degli istinti aggressivi, verso un duraturo scenario di pace.

Stranamente, proprio il venir meno di un nemico perfettamente simmetrico nel quale specchiarsi e confrontarsi ha messo in crisi la superpotenza rimasta sola al comando del mondo.

E’ generalmente condivisa l’opinione che alla base delle guerre ci siano sempre inconfessati interessi economici, ma la crescita della consapevolezza sociale ha generato un profondo senso di vergogna della guerra ed è penetrata nel comune sentire e nelle istituzioni politiche.

Oggi, infatti, si evita di dichiarare formalmente guerra, giustificando – anche quando ciò appare poco credibile – i reiterati interventi militari con motivazioni discendenti dal Diritto Internazionale per la difesa dei diritti inalienabili della persona.

Poiché dalla fondazione dell’ONU, le guerre sono state sempre combattute con la giustificazione di dover ripristinare – per motivi umanitari e morali- la libertà e l’integrità fisica delle persone, dobbiamo conseguentemente chiederci se veramente può esistere una guerra giusta.

Non esiste una guerra giusta, tutt’al più, concordando con una diffusa opinione, per talune condizioni la guerra può rendersi necessaria, quando si tratti di guerra di difesa.

Dobbiamo pur essere consapevoli che concordare significa nutrire col cuore il medesimo sentimento…. pur se i sentimenti sono mutevoli: oggi l’Europa, anche se ha provocato due guerre mondiali con la certezza delle potenze in campo di trovarsi sempre nel giusto, prova orrore per quei popoli che intendono continuare a far le guerre e cerca di impedirlo.

E ancora, una parte dell’Europa ha mostrato il più orrendo antisemitismo ma ora si straccia le vesti di fronte alle responsabilità dell’Olocausto.

Quindi, basarci sul sentimento condiviso può manifestarsi pericoloso.

Ed ancora. Possiamo asserire che la guerra, di qualsiasi natura essa sia, nasce sempre dall’istinto di sopravvivenza, che non è solo naturale ma anche frutto di una cultura, cioè di una visione del mondo.

Tutto ciò che facciamo potrebbe in fondo derivare dall’istinto e cioè dalla paura anche se siamo consapevoli che l’uomo non può essere ridotto a soli istinti perché per noi l’uomo rappresenta la manifestazione dell’assoluto.

Per comprendere davvero che cosa sia giusto, dobbiamo allora interrogarci sull’idea di giustizia.

Nella tradizione, Giustizia è Verità e ciò significa instaurare un ordine vero del mondo, quindi la pace è la situazione autentica dell’uomo in cui si vive quest’ordinamento ritenuto vero.

Quello che è definitamente venuto meno nella nostra civiltà è questo modo di intendere giustizia e verità, perché è entrata in crisi la cultura tradizionale per la quale vi sono Valori e Verità assolute alle quali la Giustizia, per essere tale, deve riferirsi.

Siamo purtroppo costretti all’interno di un modo di pensare secondo il quale giustizia è l’adeguarsi alla maggior forza.

Giustizia e Verità, oggi, rappresentano l’equilibrio delle forze, e quindi l’accettare questa forma di monopolio legittimo della violenza in cui consiste il potere mondiale degli equilibri fra gli imperi. Di ciò la “guerra fredda” è stata o continua a essere la manifestazione conclamata.

Oggi, nel momento in cui la guerra è nuovamente divenuta un fatto reale a noi molto vicino e vediamo riemergere, nel nostro animo, la difficoltà ad affrontarla si appalesa la prospettiva – che definirei più compiutamente un incubo- che le nostre istituzioni politico-militari si accingano alla razionale pianificazione di attacchi, con l’immediata conseguenza di bombardare e distruggere città e di uccidere persone, quasi sempre vittime innocenti.

Possiamo applicare alla guerra i nostri principi e giudizi morali se l’etica quotidiana, fondata sull’idea della compassione e della giustizia, si raggela di fronte allo spaventoso concetto di guerra e il presupposto del rispetto della vita degli esseri umani, si  frantuma nella necessità che la guerra impone di trovare le ragioni che giustifichino la loro uccisione?

Non riteniamo che possa esistere un’etica che consenta di giustificare l’orrore criminale della guerra!

In realtà dobbiamo costatare con amarezza che permangono gli equilibri instaurati durante la guerra fredda perché –nonostante un’erronea valutazione-, la Russia, pur nella sua crisi economica e diminuita capacità d’influenza geo-politica, dispone di consistenti armamenti sia convenzionali sia nucleari.

I due superstati, i due imperi, hanno ripreso a esercitare quel ruolo di confronto, di controllo ed equilibrio, che hanno svolto sin dal dopoguerra quando fu attivata la riorganizzazione post coloniale del terzo mondo, nell’ottica di una vecchia visione geo-politica costruita su Stati le cui frontiere erano state tracciate esclusivamente sulla carta.

Dicono che Churchill con l’aiuto di Lawrence d’Arabia contribuì a segnare con una matita rossa i confini del Medio Oriente che ancora oggi incidono tanto tragicamente sulle vicende politiche della regione.

Dopo il 1989, con la fine dell’URSS, si è avviato un processo di destrutturazione degli organismi tenuti insieme sino allora dalle imposizioni post coloniali e sovietiche. Il primo atto di questo nuovo scenario ha avuto inizio con la guerra che ha coinvolta l’ex Iugoslavia.

Altre hanno colpito Siria, Iraq, Libia, Niger, Nigeria, Repubblica Centro Africana, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Somalia.

Sono questi una parte dei paesi nei quali sono in atto o si sono già compiuti processi di disgregazione delle deboli strutture statuali, costruite nel periodo del post colonialismo: conflitti senza fine e senza frontiere hanno generato condizioni d’inaudita violenza e la tendenza dei gruppi armati a subire il richiamo delle rivendicazioni ideologiche della jihad.

Le condizioni dello scontro sembrano non essere più comprensibili e controllabili dai super stati, Russia, USA, Cina ed Europa compresa.

Non ci sono eserciti schierati, non ci sono frontiere da conquistare: soltanto una logica di sterminio in cui famiglie, bambini, profughi, sono il target e il facile obiettivo che può essere colpito, perché nulla più si riferisce al sentire etico, esiste solo la scelta strategica.

La pace non è prevista, si è inventata la guerra continua, attribuendo allo scontro una dimensione universale e apocalittica; come avviene in tutti i terrorismi, si uccide in nome di una dimensione mistico-religiosa.

Soldati senza stato si spostano rapidamente e attirano i bombardamenti sulle inermi popolazioni civili, rivendicando una legittimazione territoriale simile a quelle degli Stati che operano quei bombardamenti.

Mentre, sul campo, lo scontro avviene fra truppe speciali e fra tutti i contendenti – con una feroce caccia all’uomo- si privilegiano la tortura, la prigione e la morte.

Le reciproche ragioni politiche e finanziarie sono sempre prive di contorni talché si sono perse le tracce delle cause scatenanti e non si conoscono i fini.

Nessuno di noi capì cosa stava succedendo in Ruanda: vent’anni dopo me ne vergogno”, ha scritto Bartholomeus Grill di Der Spiegel.

Viene meno la ragionevole speranza che questa barbarie abbia una conclusione perché non sussistono i presupposti per la pace; l’intento dei terroristi volto al totale e cruento annientamento del nemico, coincide con quello del mondo degli stati organizzati.

In questi frangenti, appare inversamente attuale la poesia “The White Man’s Burden” del Fratello Kipling i cui primi versi recitano:

“Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco
Disperdi il fiore della tua progenie
Obbliga i tuoi figli all’esilio
Per servire le necessità dei tuoi prigionieri;
Per vegliare pesantemente bardati
Su gente inquieta e selvaggia”.

Queste parole rappresentano la visione storica e culturale che pretendeva la superiorità dell’uomo bianco evidenziando, nella sua inattualità, il peso delle responsabilità che l’Occidente ha avuto ed ha rispetto alla situazione disastrosa che si vive nelle aree geografiche coinvolte nel terrorismo e nella dissoluzione delle organizzazioni statuali.

Recentemente, la ricercatrice statunitense Louise Shelley, direttrice del centro studi sul terrorismo della George Mason University in Virginia, ha pubblicato un libro dal titolo “Dirty Entanglemets” nel quale sono posti in luce gli stretti legami intercorrenti fra terrorismo, piccola criminalità e corruzione.

Una gran parte dei combattenti stranieri sono pregiudicati; non si tratta solo della criminalità organizzata e dei grandi traffici di droga e di armi, ma anche e sempre più spesso della piccola criminalità urbana, nei cui confronti gli apparati di sicurezza non hanno rivolto una particolare attenzione.

Sino a ora, trascurando l’inquietudine che permea le nostre città, si è prestata attenzione ai grandi processi di finanziamento delle organizzazioni terroristiche ad opera degli stati e dei loro servizi, utilizzando il petrolio trafugato, i sequestri di persona, il traffico di reperti archeologici e di esseri umani.

In particolare, osservando il terrorismo jihadista possiamo notare che questo, mediante una montatura ideologica  pseudoreligiosa, diviene un mezzo di redenzione dell’individuo emarginato.

Questo è un potente meccanismo psicologico perché il marchio sociale connesso al crimine è cancellato nella mente del terrorista ed egli si sente al servizio di una causa percepita giusta e importante garantendo devozione assoluta fino alla morte, propria e altrui.

Dobbiamo essere consapevoli che tutto ciò avviene nelle aree metropolitane europee nelle quali non si è stati tempestivamente capaci di prevenire quei processi di emarginazione che hanno interessato interi comparti urbani e che l’Europa, nel suo complesso, non è riuscita a comprendere per tempo il problema e, pertanto, l’emergenza ci trova impreparati ad affrontarne e superarne le conseguenze.

Con inaccettabile ritardo, ci si rende conto che i singoli Stati hanno errato a non accentuare quelle funzioni di controllo senza le quali i fenomeni terroristici di carattere internazionale sono difficilmente contenibili e auspichiamo che l’emergenza possa favorire questi processi di attenta e doverosa vigilanza.

Per altro, l’Europa oltre all’azione di carattere repressivo deve proiettarsi nel futuro riflettendo sugli ideali e i valori sui quali è sorta, perché solo rafforzando l’unità politica dei popoli europei si potranno realizzare i principi di democrazia, di pace e di fratellanza fra i popoli.

La riflessione più difficile, per noi Massoni, attiene al nostro impegno per concretizzare il bene e la pace.

Cosa possiamo fare realisticamente di fronte alle guerre, all’esodo di milioni di uomini in fuga da esse, al dilagare delle visioni apocalittiche e criminali del terrorismo?

Non sono percorribili facili soluzioni ma, certamente, dobbiamo riflettere sul percorso storico e ideale da cui l’Europa trae origine: ci riferiamo in particolare al Manifesto di Ventotene e ai grandi pensatori da cui Spinelli trasse lo spunto e la linfa intellettuale e morale: Voltaire, Mazzini, Einaudi.

Dobbiamo assumerci il compito di operare per diffondere i nostri principi di libertà, democrazia e fratellanza, senza circoscrivere questo impegno solo all’interno di sterili momenti celebrativi.

Nella consapevolezza della gravità del momento storico dobbiamo imporci una prassi di lavoro, che sappia rendere vivo e attuale il nostro messaggio ideale.

La guerra non si combatte con la guerra, la guerra si combatte con la pace, l’odio si combatte con l’inclusione e la fratellanza.

Nel 1948 l’Unesco, memore della guerra appena terminata e consapevole dei pericoli ancora incombenti, realizzò un’iniziativa finalizzata alla promozione della pace dando luogo a ricerche e studi in varie discipline, comprese quelle filosofiche e psicologiche, finalizzate alla individuazione e applicazione di tecniche e iniziative sociali e politiche atte a trasformare l’atteggiamento mentale degli uomini verso la pace e la guerra.

L’Unesco si rivolse ai più prestigiosi istituti di ricerca        mondiali di psicologia, sociologia e relazioni umane e in particolare all’Istituto G. C. Jung. di Küsnacht

Il più importante risultato di tale iniziativa fu un testo redatto dal grande psichiatra e terapeuta svizzero intitolato: “ Tecniche di trasformazione dell’atteggiamento mentale in vista della pace nel mondo”.

L’animo umano, secondo Jung, resiste con ostinata costanza  al cambiamento perché un’idea dominante conscia non è solo mentale ma anche morale o per meglio dire affettiva, talché, senza tale qualità emotiva, un’idea non può produrre effetti pratici.

Per Jung, e aggiungo per noi, il cambiamento di atteggiamento è un fatto puramente individuale e come tale necessita di una guida, di una persona esperta, di un Maestro, capace di esercitare una profonda influenza sull’altro.

Tenendo ben presente che“ Nessuno”, come insegna Jung, “può cambiare un’altra persona senza aver prima trasformato il proprio cuore”.

Non possiamo che condividere quest’ultima asserzione perché, se in un contesto planetario la possibilità di agire da Maestro a discepolo, da bocca a orecchio è di difficile applicazione ed efficacia, proprio questo ci deve far riflettere sulla  forza del nostro metodo e della organizzazione massonica, sulla   sua universalità capace di parlare direttamente al cuore degli uomini.

E’ necessario però che noi tutti dobbiamo avere consapevolezza della forza dei principi della Massoneria ed essere convinti che, in virtù di tali principi universali, essa può richiamare l’Occidente, e l’Europa in particolare, ai valori su cui si è fondata la nostra storia: la lotta contro l’oscurantismo, il dispotismo e le dittature, contro l’oppressione dei popoli e degli individui, per affermare giustizia, democrazia e pace.

Desideriamo concludere citando nuovamente, per l’attualità del suo pensiero, il Fratello Rudyard Kipling -33° Grado del Rito Scozzese, il quale ne “La mia Loggia madre” recita:

“Fuori: “sergente! sir! Buongiorno! Salaam!”.
Dentro: “Fratello”, e questo non fa male.
Ci incontravamo sulla Livella e ci lasciavamo sotto la Squadra.
Ed io ero il Secondo Diacono, laggiù, nella mia Loggia Madre!

Vi era ancora Bola Nath, il contabile,
e Saul, l’ebreo di Aden,
e Din Mohammed, disegnatore del Catasto.
Vi era Chuckerbutty, lo scrivano indiano,
ed Amir Singh, il Sikh,
e Castro, dell’officina riparazioni,
che era cattolico romano!”

Roma, 19 marzo 2016

Leo Taroni 33° SGC

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