1918–2018 la Guerra “giusta” della Massoneria italiana

Trieste e l’Irredentismo: un’altra storia

È il titolo del Convegno che il Rito Scozzese Antico ed Accettato e il Rito Simbolico Italiano, hanno tenuto nella Casa massonica di Trieste il 27 gennaio scorso, in una sala gremita di Fratelli e ospiti, alla presenza del Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico ed Accettato, Leo Taroni, e del Serenissimo Presidente del Rito Simbolico Italiano, Giovanni Cecconi.
Dopo il saluto del Vice presidente del Collegio Circoscrizionale del Friuli Venezia Giulia, Roberto Rosini, il moderatore del convegno, Fabio Bidussi ha introdotto il tema che è stato ampiamente sviluppato negli interventi dei relatori: Luigi Milazzi, Marco Cuzzi, che nell’occasione ha presentato il suo libro “Dal Risorgimento al Mondo Nuovo – La Massoneria Italiana nella prima guerra mondiale, e Arturo Menghi Sartorio.
Al termine degli interventi e le risposte dei relatori ai convegnisti, il Sovrano Gran commendatore Leo Taroni e il Serenissimo Presidente Giovanni Cecconi, hanno preso la parola per sottolineare l’importanza ed il valore storico e massonico dell’iniziativa e congratularsi con i relatori.
Riportiamo di seguito il testo del saggio presentato dal nostro Past Sovrano Gran Commendatore Luigi Milazzi:

“Nel 2010 su iniziativa promossa dal Rito Scozzese Antico e Accettato l’editrice Bastogi ha pubblicato l’ultimo scritto di Manlio Cecovini: Il romanzo di Trieste – Storia di un autonomismo. Il prof. Corrado Balacco Gabrieli, allora ai vertici del Rito Scozzese, scrisse nella sua introduzione al saggio di Cecovini che si trattava della storia della Città giuliana “dalle sue più antiche origini, fino all’auspicato futuro di un’autentica autonomia cioè della condizione di Trieste italiana per scelta culturale ed al tempo stesso città porto franco d’Europa”.
Poiché la storia si concludeva con una proposta di riforma costituzionale in favore di Trieste, il volume fu inviato a tutti i Parlamentari Europei italiani, ai capi Gruppo del Parlamento Europeo di lingua diversa, ai Membri della Commissione esecutiva, a tutti i Parlamentari italiani nonché a tutti i componenti del Consiglio Regionale del Friuli Venezia Giulia, ed a tutti i Consiglieri dei Comuni della nostra Regione, ai Membri del Governo Nazionale.
Si intendeva richiamare l’attenzione sulla Città giuliana delle forze politiche e dell’opinione pubblica assopite dopo le grandi manifestazioni degli anni quaranta e cinquanta del novecento per il ritorno di Trieste all’Italia.
Le fortune di Trieste e il suo grande sviluppo erano iniziate con la fine del dominio napoleonico, come racconta Cecovini: «La soppressione della Repubblica Veneta e il ritorno dell’Austria che finalmente scopriva le potenzialità del porto triestino, l’accorrere delle “Nazioni” straniere e la naturale disposizione alla tolleranza del piccolo, ma industrioso popolo triestino, operarono il miracolo di trasformare la cittadella ancora murata del Settecento in un emporio commerciale di valenza europea: tutto pareva mettersi al meglio, ma nell’uomo convive sempre un irrequieto desiderio del nuovo che è nemico della pace. L’Italia che si avviava a divenire nazione, ebbe i suoi “moti”, le sue effervescenze i suoi martiri. In una parola ebbe il suo Risorgimento, che non si potrebbe spiegare con la sola ragione, se non vi concorresse un travolgente sentimento romantico. Chi cominciava a stare bene con l’Austria non dubitò che sarebbe stato anche meglio nello stato nazionale. Cosa mancava a quell’Italia? E cosa a Trieste?».
I risultati dell’impegno dell’Austria a favore della città e dell’intraprendenza dei triestini, sono rappresentati dalla cifra dell’incremento demografico: Trieste dal 1812 al 1815 raddoppiò la propria popolazione, passando a 45.000 abitanti, e continuò a crescere fino al balzo finale: dalle oltre 175.000 unità del primo Novecento, passò alle 250.000 alla vigilia della Prima guerra mondiale. A questa realtà di crescita, di sviluppo economico e sociale, di relativo benessere si aggiunse però un anelito, un sogno una speranza.
Nel 1861, il Regno d’Italia era una realtà alla quale Trieste poteva confrontare la sua condizione di città immediata dell’Impero, cioè relativamente autonoma. Infatti, nel 1839 l’imperatore Ferdinando I le aveva restituito i poteri municipali affidandole la gestione a un Consiglio Maggiore e a un Consiglio Minore, presieduti entrambi dal Magistrato di nomina imperiale. Era in sostanza il ritorno a quella autonomia cui il comune teneva in modo particolare.
Non fu sufficiente e il sentimento patriottico che era ancora tiepido, nel Quarantotto, la città rimase tutto sommato tranquilla, cominciò a surriscaldarsi. Come sottolinea Cecovini: «L’irredentismo triestino ebbe un doppio effetto. Contribuì a sviluppare il sentimento popolare nazionalista e operò come elemento corrosivo dell’autorità austriaca che, un po’ per volta, divenne ossessivamente poliziesca. E tuttavia il clima politico generale era ancora, fuori casa, considerato tollerante e liberale, se la città offriva rifugio non solo ai napoleonici ma, occasionalmente, agli stessi patrioti italiani»(Gabriele Pepe, i due Poerio, Emilio Bandiera) che trovavano ospitalità presso amici». 
Naturalmente questo riguardava quella parte della cittadinanza che si sentiva italiana, ma c’erano anche gli altri, gli “austriacanti”, che erano i benpensanti, parte dell’alta borghesia, gli sloveni e gli slavi in genere, ben più numerosi dei dimostranti facinorosi che nel 1915, alla dichiarazione di guerra dell’Italia, assalirono e devastarono la sede della Lega Nazionale, incendiarono il palazzo del quotidiano italiano Il Piccolo, tentarono di bruciare i ricreatori.
Come ha osservato lo storico Giulio Cervani  nel suo Momenti di storia e problemi di storiografia giuliana«Negli anni trenta dello scorso secolo a Trieste, a parte gli adulti di una certa fascia intellettuale, i più giovani non avrebbero normalmente avuto occasione, diciamo così “scolastica”, di conoscere a fondo questa realtà, tutto ciò che riguardava l’Austria era diventato negativo come la parola austriacante. Neppure il pensiero di Scipio Slataper era conosciuto nelle sue linee significative e non conformiste. Lo stesso era avvenuto per Ruggero Fausto Timeus il quale andava bene solo se presentato come l’irredentista, o come il “precursore” del fascismo, senza tener conto di altri aspetti del suo pensiero. Andavano bene, insomma, tutti e due, sia Slataper sia Timeus, ma come caduti per la “redenzione” di Trieste». Il tutto era frutto di un’azione mistificante che aveva nello storico Attilio Tamaro il massimo rappresentante. «La borghesia patriottica triestina… metteva la sordina su alcuni temi considerati particolarmente sgradevoli dal punto di vista politico, credendo così di aggiustare ogni eventuale contrasto». Si evitava in questo modo di guardare in faccia la realtà e di affrontare la complessità della situazione triestina evitando più approfonditi esami di coscienza; «cosa che avrebbe riservato (come si ebbe il modo di constatare quando i nodi vennero al pettine negli anni dal 1943 al 1945, con la disfatta militare e il dramma dell’italianità istriana) dolorose ed inaspettate sorprese».
L’arrivo dei soldati italiani, i bersaglieri, a Trieste nel novembre 1918, accolti lungo le rive da una folla imponente, rappresenta l’entusiasmo patriottico dei triestini che vedevano finalmente realizzato il loro sogno. Dai racconti emerge l’amara esperienza che però subito dopo la “redenzione”, mitigò gli entusiasmi patriottici. Educati al governo dell’ Austria, che certamente non era riuscito a conquistare i cuori e la simpatia dei suoi sudditi, ma aveva governato bene, «i triestini erano legalitari e quindi si adattarono con fatica alla nuova burocrazia, in genere svogliata e distratta, alle “Guardie Regie” che fiancheggiavano la polizia impegnata a garantire l’ordine sovvertito dalle squadre fasciste; e più tardi alla noia delle “adunate” dei pacifici cittadini camuffati nelle camicie nere e nelle fastidiose giubbe di orbace, e, più avanti ancora, all’asfissiante retorica d’una nuova “romanità” fatta di slogan e simboli che non commovevano nessuno».
Per chi sale a piedi a San Giusto lungo la via della Cattedrale, alla fine della salita si trova proprio di fronte al magnifico rosone, mentre alla sua destra può leggere i versi de Il saluto italico di Giosuè Carducci scolpiti sula cinta dell’Orto Lapidario. La poesia è ispirata, come Miramar, dal soggiorno triestino del poeta tra il 7 e l’11 luglio 1878, mentre grandi manifestazioni irredentistiche si svolgevano nel paese. Era la protesta contro le decisioni del Congresso di Berlino tenuto dalle potenze europee, compresa per la prima volta l’Italia. Erano state esaudite le aspirazioni territoriali dell’Austria nei Balcani senza nulla concedere all’Italia. Si sperava, infatti, che una espansione austriaca verso Oriente potesse guadagnare all’Italia un compenso territoriale nel Trentino, ma ciò non avvenne sia per l’imperizia dei suoi politici, sia per la scarsa importanza del paese in campo internazionale.
I versi che concludono il Saluto italico:
«in faccia a lo stranier, che armato accampasi
su’l nostro suol, cantate: Italia, Italia, Italia!»
riecheggiano un articolo del 1876 di Matteo Imbriani su il giornale L’Italia degli italiani, in cui sembra che per la prima volta si indichino le popolazioni delle terre italiane soggette all’Austria come irredenti:
«noi non siamo vilmente obbliviosi dei fratelli peranco irredenti, né dei martiri tuttora invitti, né delle terre nostre che ancora calpesta straniero soldato, si necessarie alla nostra sicurezza, e senza le quali l’Italia non è compiuta».
All’azione dell’irredentismo triestino è strettamente legata la storia della Loggia massonica denominata Alpi Giulie. Sarebbe stata fondata, secondo alcune fonti nel ’93, ’94. Dall’archivio del GOI, una loggia con questa denominazione fu costituita a Trieste nel 1878, ma già l’anno dopo ne fu deliberato lo scioglimento, perché “svelata al pubblico profano”. Ciò, infatti, costituiva un serio pericolo per i suoi adepti essendo la Massoneria severamente proibita in Austria.
Il 2 novembre del 1879 la Giunta esecutiva del GOI deliberò la ricostituzione della Loggia a Udine, sua sede ufficiale. Seguirono altri scioglimenti e ricostituzioni sempre a Udine, mentre la Loggia operava segretamente a Trieste.
Stavano maturando a livello internazionale avvenimenti che avrebbero modificato la geografia politica dell’Europa, quando alla Loggia Alpi Giulie «fu affidata una missione delicatissima non solo massonica, ma anche patriottica, e quindi politica. Missione strettamente collegata alle finalità che il Governo italiano perseguiva per sostenere il mantenimento dei legami culturali e sentimentali della popolazione con la Madrepatria» (L. Tomaseo, la RL Alpi Giulie N°528 nel suo centenario). Compito questo particolarmente delicato e segreto trattandosi di una attività politica sotterranea e parallela rispetto all’atteggiamento pubblico della diplomazia italiana vincolata agli accordi della Triplice Alleanza.  Sta di fatto che le conseguenze delle guerre di indipendenza, male digerite dall’Austria, e la presenza di un grande numero di italiani entro i suoi confini pesavano sui reciproci rapporti. Non è un mistero che nel segreto dei suoi uffici lo Stato maggiore austriaco predisponeva i piani per una guerra offensiva oltre l’Isonzo.
Il Governo nazionale occupato a trarre i vantaggi sperati dall’alleanza, specialmente grazie all’appoggio della Germania, mise la sordina a qualsiasi manifestazione che potesse apparire anche lontanamente antiaustriaca, tanto che non ebbe nessuna esitazione nel destituire immediatamente un ministro, Federico Seismit Doda, di origine dalmata, iscritto al G.O.I., solo per aver ascoltato a Udine un discordo irredentista senza protestare.
«Nel periodo storico che va dell’ultimo decennio dell’Ottocento alla Prima guerra mondiale – come ha scritto Tomaseo -, la Alpi Giulie esercitò, quindi, una vera e propria funzione di comitato di promozione e di coordinamento di tutte le istituzioni pubbliche e private che costituirono l’ossatura organizzativa dell’irredentismo giuliano: la Lega Nazionale in primis che, in stretto collegamento con la Dante Alighieri, aprì e gestì in Istria scuole elementari e asili in lingua italiana (il Governo austriaco sosteneva soltanto le scuole tedesche), Ricreatori nei rioni popolari di Trieste; la Società Ginnastica Triestina, fucina di attività sportive e patriottiche; la Società Operaia Triestina, nel tentativo di coinvolgere nel movimento irredentista di ispirazione mazziniana la classe operaia, ed infine il Partito liberal nazionale, espressione e strumento politico-elettorale dell’italianità.  Negli organi direttivi di questi sodalizi, oltre che nel Consiglio municipale, erano presenti membri della loggia. Il coordinamento delle attività avveniva attraverso le loro periodiche riunioni che si tenevano in modo il più delle volte non rituale nello studio legale di Felice Venezian». 
Nel contempo le cause di attrito e di contrasto che si erano venute accumulando tra le grandi Potenze europee erano tante e tali, e tra queste c’erano pure i contrasti italo-austriaci per l’Adriatico e per la politica dell’Impero contro gli elementi italiani, che dovevano inevitabilmente sboccare in una guerra.
Alla speranza maturata da alcuni degli irredentisti moderati, che l’Austria, nella grave crisi di trasformazione che i tempi le imponevano, «potesse essere veramente avviata a diventare una più grande Svizzera e, conciliando le vite libere delle varie nazioni nel suo seno, formare la base per una federazione di tutti i popoli europei» (Giani Stuparich, Trieste nei miei ricordi), si impose la cruda soluzione imposta dalla realtà politica.
Gli irredentisti furono allora alla testa della campagna interventista a favore dell’entrata dell’Italia in guerra per il conseguimento dei confini naturali; lo slancio patriottico provocò l’arruolamento nell’esercito italiano di un gran numero di giovani volontari provenienti dalla “terre irredente” (tanto più significativo in considerazione del destino riservato a costoro in caso di cattura). 2.107 furono i volontari Giuliani e Dalmati, di cui 332 furono feriti e 302 caddero in combattimento o subirono la pena capitale comminata dai tribunali militari austriaci. Molte scuole triestine sono intitolate a questi giovani valorosi.
Ci furono anche gli altri, quelli che combatterono dall’altra parte: i reparti asburgici costituiti di Giuliani e Dalmati che furono generalmente impegnati sul fronte orientale anche per evitare casi di diserzione. Già un anno prima dell’intervento italiano, l’11 agosto del 1914, era partito da Trieste per il fronte orientale il reggimento di fanteria numero 97 forte di 3.500 uomini. Molti sono caduti combattendo e in prigionia, ma «non sappiamo nulla di loro, nemmeno dove siano stati sepolti quei Caduti. Eppure furono migliaia, forse più di diecimila se è vero che il solo Trentino – che al contrario della Venezia Giulia ha completato il censimento dei suoi morti per l’aquila a due teste – ne ha contati dodicimila. Migliaia di vite perdute, vite dei nostri figli, sparse nel fango ucraino, polacco o in Ungheria, ma anche sul fronte italiano, sotto croci che nemmeno i familiari conoscono, in ossari dove nessuno ha portato un fiore. Non può esserci patria senza onestà della memoria». (Paolo Rumiz)
La radicalizzazione della lotta comportò un’integrazione della concezione stessa dell’irredentismo che secondo l’irredentista trentino Scipio Sighele per raggiungere il suo scopo doveva essere completata con una concezione più vasta di tutta la vita italiana: la concezione nazionalista. L’irredentismo era il fiore più puro del nazionalismo, non essendo desiderio di conquista, «ma affermazione di un diritto, perché è la poesia più alta del passato e la speranza più viva del futuro” concludendo al congresso nazionalista di Firenze nel 1911, “il nostro è un convegno di innamorati della grandezza d’Italia».
Ci sono stati diversi tipi di irredentismo. Quello triestino di felice Venezian fu massimalista e alla fine vinse il confronto con quello di Scipio Slataper, dei fratelli Stuparich che «prediligevano aspetti strettamente culturali e intendevano la città di Trieste come luogo di mediazione» (Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste), mentre altra cosa fu per Ruggero Timeus, «più vicino al nazionalismo corradiano e quindi più lontano dai presupposti di moderata autonomia: per lui l’irredentismo significava un’intransigente contrapposizione agli slavi, il predominio italiano nell’Adriatico e l’espansione nel Mediterraneo»… voleva essere il continuatore del Risorgimento e proprio per questo la sua visione ebbe così successo. In realtà si impose in Italia come altrove il nazionalismo tout court che nulla aveva a che fare con il nostro Risorgimento e che si rafforzò nella Grande Guerra e che« odiava la democrazia liberale e nutriva ambizioni imperiali».
Ho iniziato parlando di Cecovini e della sua proposta per la Venezia Giulia che non costituiva una novità, ma voleva essere un richiamo ai disattenti politici italiani. Infatti, molti altri tanto prima di Cecovini hanno sostenuto la opportunità di concedere alla Venezia Giulia un’ampia autonomia, in considerazione delle proprie specificità storiche e culturali. Tale autonomia si sarebbe dovuta inquadrare dopo il 1918 nel seno di un’Italia democratica e repubblicana. La storia andò diversamente perché fu il fascismo a conquistare il potere, che era proprio la negazione di quei valori di libertà e di giustizia sociale propugnati dai grandi pensatori del Risorgimento italiano. Ne è testimone l’esempio di Gabriele Foschiatti, della Loggia Guglielmo Oberdan, costituita a Trieste nel dicembre 1918. Dopo aver combattuto giovanissimo con i garibaldini in Grecia e nelle Argonne, allo scoppio della Prima guerra mondiale, fu poi ufficiale degli arditi sull’Isonzo.
Trascorse gli anni della dittatura «vivendo oscuro e povero tra i suoi libri in attesa di poter agire secondo le proprie idee e la propria coscienza» (G. Stuparich). Dopo il 25 luglio 1943 fu uno dei primi a organizzare la resistenza a Trieste. Arrestato dalla Gestapo nel dicembre 1943, fu deportato e morì a Dachau.
Ogni anno nell’anniversario del suo olocausto viene ricordato con una semplice cerimonia dal Comune di Trieste, dai Volontari della libertà e dai Fratelli triestini del GOI.”

Luigi Milazzi 33°
Past SGC

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